Ideata da Frank Spotnitz, già sceneggiatore di The X-Files, e prodotto da Kudos Film and Television e Big Light Production, Hunted è una serie spionistica con alcuni tratti atipici, soprattutto a livello visuale. Ai tre setting principali, già ben caratterizzati, si aggiungono toni cromatici molto radicali, che contribuiscono sia a marcare l’identità del pilot, sia a scandire l’ordine narrativo in blocchi separati.

Le vicende seguono Samantha Hunter (Melissa George), spia al soldo di Byzantium, un’agenzia privata; inizialmente in missione a Tangeri, dopo aver conseguito l’obiettivo con successo – il salvataggio di un ostaggio – aspetta d’incontrarsi con il collega e compagno Aidan Marsh (Adam Rayner), intenzionata a rivelargli la sua gravidanza. Sul luogo stabilito, dopo una lunga e sospetta attesa, subisce però un attacco da un commando locale, e rimane apparentemente uccisa.

Laddove la prima sequenza si affida a un ocra marcato, in linea peraltro con il setting desertico, la seconda, che si focalizza sul recupero e l’addestramento solitario di Sam, situato peraltro in un’ambientazione più naturale, si configura coerentemente con un assetto cromatico più freddo.

Quanto alla terza, una Londra decisamente bluette fa da sfondo al reintegro di Sam nell’agenzia, rientro programmato al fine di indagare su chi l’abbia tradita, e guardato con sospetto dai colleghi – tra le altre cose a causa della probabile presenza di un infiltrato. Di tanto in tanto riaffiora un episodio della sua infanzia, questa volta realizzato con l’ausilio di più canoniche sequenze distorte.

Le situazioni sono generalmente ben orchestrate, soprattutto nella prima parte, con lunghe sequenze realizzate con un montaggio spesso silenzioso, che lascia intuire. Per quanto concerne i problemi – più evidenti da metà in poi – attengono invece a tre precise tendenze: la freddezza generale, la piattezza di alcuni personaggi e un generale senso di vuoto.

Se per il primo punto si può parlare di scelta stilistica, soprattutto se il focus della trama, come in questo caso, è di stampo spionistico, e dunque idealmente lontano da situazioni “passionali”; il secondo sembra invece il risultato di una sceneggiatura che non eccelle nella caratterizzazione dei personaggi. Che sospettino tradimenti o abbiano perso l’amore e la fiducia, i loro dialoghi, seppur concisi e senza sbavature, insistono su inopportuni cliché. Il capo sospettoso, la testa calda, il genitore cinico, il marito deluso: tutte figure che sebbene stereotipate si sarebbero potute intrecciare in maniere interessanti, se supportate da dialoghi più freschi.

A questo rammarico si aggiunge la già nominata vuotezza spaziale, che se è giustificata nel momento in cui sottolinea una solitudine interiore e la voglia di riscatto, elementi ben dosati della seconda sequenza, stride invece quando i personaggi si muovono in ambienti meno privati. Forse si tratta di un’ulteriore marca stilistica, o forse di un vezzo che tenta una rima con le azzeccate scelte visive; fatto sta che sia la Tangheri dell’incipit, sia la Londra dello sviluppo, sono generalmente troppo vuote, luoghi spettrali riempiti o solo da terroristi, o da gente in carriera.

Il risultato è nel complesso interessante, e sebbene realizzato con un’amalgama che qui non brilla per la sua intensità, ha in ogni caso tutto il tempo di riequilibrarsi, soprattutto alla luce non solo degli episodi che seguiranno, ma anche della già annunciata seconda stagione.



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